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Ma perché è così importante tornare? In primo luogo il ritorno e il confronto con la realtà di partenza è un tassello importante per renderci consapevoli del nostro nuovo essere. In seconda istanza, il ritorno svolge un ruolo di riconoscimento; infatti, proprio come diceva Propp, occorre che l’eroe torni al suo villaggio e venga riconosciuto dal Re e che abbia una ricompensa (come il matrimonio con la principessa) che è poi simbolicamente l’espressione del riconoscimento sociale.

In conclusione è quando si torna e si viene riconosciuti come diversi, quando ci si rende conto che non si è più gli stessi, quando le polarità iniziano ad integrarsi, quando ci si sente evoluti e rivoluzionati, è lì, in quel momento, che il viaggio può ritenersi concluso.

Riconoscimento e accettazione vanno a braccetto. L’atto del partire e ritornare è però un cammino così intimo e personale che spesso risulta invisibile agli occhi di chi è ‘rimasto’. Il primo passo per essere riconosciuti è innanzitutto essere visti ma, per essere notati, occorre qualcosa di distintivo. Qualcosa che rifletta all’esterno il cambiamento avvenuto interiormente. Anche nei riti iniziatici tribali, infatti, il ragazzo –dopo aver superato le prove– torna al villaggio con nuovi segni distintivi e viene festeggiato e celebrato dalla comunità tutta: è finalmente diventato uomo.

Chi torna, ma non si confronta con un processo di accettazione sociale, (o chi proprio non torna) non porta a conclusione il proprio ciclo di crescita e di conseguenza non costruisce un nuovo livello della propria personalità. L’effetto è che si abbia un’immediata voglia di ripartire. Invece il viaggio, nel suo percorso circolare, offre la possibilità concreta di fare esperienza del processo di cambiamento per intero. Permette di osservare il nostro sé viaggiatore ed il nostro sé quotidiano, confrontarli e poter cogliere le risorse di entrambi che più ci occorrono al momento attuale, ma anche le risorse e le modalità che potranno servirci in futuro nell’ottica del raggiungimento di un equilibrio e di un ben-essere. Questo processo si chiama integrazione.

L’eroe/viaggiatore (eroe qui più che mai perché integrare è davvero un atto di coraggio) costruirà azioni ed intenzioni e imparerà a custodirle in un luogo in cui potrà attingerne quando lo vorrà. Trasformerà il cambiamento nei poteri magici che gli serviranno per le successive avventure, più o meno quotidiane, sarà un eroe completo, con l’esperienza dell’allora e dell’adesso ma soprattutto con l’esperienza a trecentosessanta gradi di se stesso. Gli strumenti poi, saranno completamente nelle sue mani, più o meni simbolici: un foto appesa alla parete, una canzone, un film o, perché no, una lettera al se stesso precedente ogni volta che si riparte per una grande avventura. 

L’idea è quella di stupirsi di tutto, di diventare viaggiatori nella propria stessa terra. Guardiamo le cose con occhi nuovi, sfruttando la diversa prospettiva che il viaggio ci ha regalato. Lasciamoci stupire, non perdiamo ciò che abbiamo imparato. Non imponiamoci nemmeno di stare fermi se siamo fatti per muoverci. L’idea è di essere semplicemente (non è per niente semplice) ciò che siamo. Assecondiamoci, facciamoci il regalo di essere noi stessi per almeno qualche ora al giorno, e di accettarci. Per ciò che siamo e che non possiamo cambiare.

estratto da Travel Counseling, il viaggio come strumento di crescita personale, di Alice Bianchi, Erickson edizioni 2019

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